Asili e piccole patrie
Lettera aperta alla Landesrätin Sabina Kasslatter-Mur
Gabriele Di Luca - 29/10/2002
 


Se l’aggettivo "accademico", attribuito negativamente ad un argomentare retorico, astratto, inconcludente, potesse essere esemplificato in riferimento ad una tematica assiduamente ricorrente nel "discorso" sudtirolese non credo che ci sarebbero molti dubbi: si parla di asili e di bilinguismo. Le dichiarazioni recentemente rilasciate (appena prima di essere ritrattate, se non corrette, o addirittura cancellate) dalla Landesrätin Sabina Kasslatter-Mur riguardo al "problema" dell’eccessiva presenza di piccoli parlanti italiani negli asili di lingua tedesca ricalcano infatti una preoccupazione che si alimenta dalla contraddizione più elementare posta alla base della vita di questa provincia, una contraddizione che essendo cioè inscritta nella lettera e nello spirito dello Statuto non può essere arginata se non ponendo mano alla revisione di quella stessa lettera e di quello stesso spirito. Ma in che cosa si esplicita dunque la contraddizione? E, soprattutto, in che cosa consiste la logica della sua periodica emersione? Com’è noto l’articolo 19 dello Statuto d’Autonomia sancisce una sorta di "variante linguistica" del provvedimento nato originariamente a salvaguardia dell’immunità etnica ottenuta come permanente (e condivisibile) progetto di risarcimento in seguito al tentativo di assimilazione culturale operato nel ventennio fascista. Detto nei termini libertari di una formula dal suono però ingannevole: ogni appartenente ad un gruppo linguistico particolare ha qui il diritto di ricevere un’istruzione nella propria lingua. La formula risulta ingannevole allorché il diritto è più o meno velatamente inteso come un dovere. Quale principio libertario potremmo infatti mai riconoscere difronte all’ingiunzione „ogni appartenente ad un gruppo linguistico particolare ha qui il dovere di ricevere un’istruzione nella propria lingua“? Che l’ultima formula citata sia lesiva dei più fondamentali criteri con i quali siamo soliti intendere la „libertà“ è confermato dalla subordinazione legale del diritto dei gruppi linguistici rispetto al diritto riconosciuto alle famiglie di decidere quale percorso scolastico possa essere più adeguato alla formazione dei propri figli (indipendentemente dal gruppo linguistico di „appartenenza“). Ora, è proprio riconoscendo al valore della scelta il grado più elevato di determinazione democratica che la contraddizione strutturale a cui vogliamo accennare emerge in tutta la sua nettezza. Chi infatti richiede di poter inscrivere i propri figli ad una scuola dell’“altro gruppo“ scopre il presupposto fondamentalemente antidemocratico (in base alla prevalenza del dovere sul diritto) sul quale si base la tanto decantata coesistenza dei "gruppi linguistici" in Sudtirolo. Il paravento della lingua lascia intravedere la cupa maschera dell’etnia e la recita di quest’ultima allude ad un passato (fatto di divisioni e lacerazioni) che evidentemente non vuole passare. Bisogna stare attenti a non fraintendere. La motivazione pedagogizzante che siamo soliti ascoltare (e che la Landesrätin Kasslatter-Mur non ha mancato purtroppo di riattivare) pretende di risolvere la questione in modo funzionale, ma non può fare a meno di risolvere la contraddizione convocando un esilarante paradosso, con relativo colpo di scena finale. La presenza dei piccoli parlanti italiani, si dice, bloccherebbe il delicato processo di apprendimento della lingua tedesca da parte dei parlanti tedeschi in quanto tale processo è già di per sé ostacolato dalla presenza di un ingombrante dialetto: è dunque per eliminare la presenza del dialetto che si vorrebbe ridurre lo spazio d’influenza di parlanti ancora più insicuri dei locali nella comprensione e nella pronuncia del tanto sospirato Hochdeutsch! Che le cose non stiano così e che dietro questo mediocre maquillage pedagogico si nasconda qualcosa di molto pericoloso è dimostrato dal fatto che proprio la copresenza di parlanti provenienti da diversi dialetti (e mi permetto di considerare qui la lingua italiana come storico „dialetto“ della antica regione tirolese) potrebbe favorire il perfezionamento di un codice metadialettale come quello offerto dalla lingua tedesca. Certo, per far questo bisognerebbe smettere di individuare come mero obiettivo scolastico l’acquisizione del tedesco standard (obiettivo che del resto rimane spesso solo sulla carta di qualche circolare inviata all’inizio dell’anno) e procedere ad una valutazione positiva di questa lingua in tutti i contesti comunicativi in cui essa può operare (ad esempio nella conversazione con i concittadini di „lingua italiana“ che "sanno" o "vogliono imparare" il tedesco). Bisognerebbe in altri termini depotenziare programmaticamente l’uso del dialetto quale irriducibile veicolo di identità da "piccola patria" e disporsi finalmente a considerare il Sudtirolo quale provincia afferente a quel più ampio contesto di riferimento che non termina ma comincia dopo il confine del Brennero. In questo modo però verrebbe a cadere l’unico motivo veramente valido per la strenua difesa di un sistema blindato sulla pelle delle più legittime aspirazioni esibite da chi, evidentemente, non ha interesse alla sopravvivenza di una identità da „piccola patria“ e vorrebbe finalmente non sentirsi più straniero in uno spazio culturale che possa comprendere Palermo e Berlino: la conservazione di una identità che spacciandosi per tedesca (o facendo finta di esserlo) si ostina a restare soltanto sudtirolese. Che tali motivazioni facciano parte e sostengano i principi ideali di frazioni politiche ultra-reazionare per le quali ad ogni micro-regione europea dovrebbe corrispondere una micro-etnia nulla di strano. Che le stesse alimentino pure il dire e l’agire dei massimi dirigenti scolastici è cosa invece ben più triste. L’idea di costituire sezioni differenziate nelle quali bambini con effettivi ritardi linguistici (italiani o mistilingue) possano sviluppare un accesso „guidato“ all’immersione nell’“altra lingua“ sarebbe tollerabile soltanto se a tali sezioni fosse garantito il prestigio di configurare la cornice didattica alla quale il resto della scuola dovrebbe successivamente tendere (sezioni nelle quali la pratica del bilinguismo risulterebbe un elemento di esempio e d’eccellenza e non di imbarazzata vergogna). La sensazione resta invece quella di trovarci ancora una volta difronte a quella pratica di miope segregazione volta a premiare la già peraltro generosa rendita di un modello culturale ed educativo ritagliato sulla misura di un fazzoletto di terra, di una terra in cui i muri divisori vengono alzati da chi avrebbe il compito di abbatterli e che ogni volta non manca di contraddire il motto con il quale vorrebbe altresì smerciare all’esterno la sua ipocrita faccia: quella di essere un ponte tra culture e genti diverse.


 

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