Nel presentare ai lettori il cosiddetto „Caso Mölten“, esposto da Jutta Kußtatscher nell’ultimo numero di „ff“, la redazione si è servita di un gioco contrastivo d’immagini a dir poco strabiliante: i bambini dell’asilo tedesco diretti nel vicino ospizio per ricevere due ore settimanali di ludica introduzione all’apprendimento della lingua italiana. Strabiliante poiché a partire dalle immagini che ritraevano i due edifici era possibile evidenziare con la dovuta ironia il „paradosso del tempo“ (paradosso che ha o avrebbe anche a che fare con la sua „maturazione“ o „Zeitigung“, col suo incoercibile slancio en avant, in base al quale si giustificava l’esasperata esclamazione del titolo: „Kinder, es isch Zeit“) inerente a questo nuovo caso di ottusità istituzionale: da una parte dunque una costruzione moderna, espressione dell’efficientismo dell’amministrazione locale e del suo „buon occhio“ nel valutare e risolvere le questioni sociali (l’ospizio); dall’altra invece una casa evidentemente più vecchia fatta di pietra e legno, assai distante dai levigati stereotopi architettonici con i quali la stessa provincia generalmente si incarica di modellare la propria edilizia scolastica (l’asilo!). Per godere appieno dell’effetto paradossale offerto dal confronto di queste immagini basta leggere come una metafora regressiva il triste esodo compiuto dai bambini al fine di usufruire di quello che i loro sensibili e previdenti genitori hanno (o possiamo già dire, come sempre, avevano?) avuto l’indiscutibile merito di tentare. Tale effetto consiste nell’inversione del senso di uno spostamento che vede indirizzato l’anelito al nuovo non verso la sede del suo naturale concepimento (l’asilo come prima tappa di un percorso educativo proiettato nel futuro), bensì nella direzione opposta, come costretto nel ricovero di persone probabilmente (e mi scuso ovviamente di questa retorica ed indelicata incertezza) intente a rimpiangere, maledire o semplicemente ricordare il proprio passato. Con una involontaria vocazione all’effetto grottesco, garantito dal dovere di corrispondere ciecamente alla legge della precoce cementificazione dell’identità etnico-linguistica, la signora Sabina Kasslatter Mur ha affermato, nella tetra intervista riportata contestualmente all’articolo, e non prima di aver osservato con agghiacciante disprezzo delle più elementari acquisizioni in materia pedagogica che un „asilo non è una scuola di lingue“ (sic!), che l’asilo „begleitet Kinder auf dem Weg ins Leben, vermittelt ganzheitliche Bilder und Sozialkompetenz“. Tenendo ben ferme davanti agli occhi le immagini dell’asilo e dell’ospizio possiamo adesso facilmente comprendere in che cosa consista questo viatico esistenziale fatto di immagini globali e fuoriere di social competence: si tratta esattamente del dispositivo micidiale per mezzo del quale si cerca di inoculare fin dai primi anni di vita il sentimento di un’appartenenza capace di svilupparsi soltanto speleologicamente, appartenenza inseguita nelle viscere di una tradizione mai compresa nella sua dinamica trasformazione, e quindi calpestata anche in nome della sua supposta conservazione. Si tratta dell’immarcescibile dispositivo azionato ogni qual volta ci sia bisogno di garantire longevità e praticabilità politica all’ignobile feticcio della purezza etnica e al suo devastante corollario monolinguistico. Si tratta insomma del consegnare quanto prima i nuovi nati e le loro speranze nelle braccia degli avi e delle loro delusioni, nel cerchio inevadibile che schiaccia e opprime il senso delle domande inaudite dei „nuovi“ con le risposte infinitamente ruminate o mancate dei „vecchi“. Costringere dei bambini ad annusare (nell’articolo si ricorreva più volte al verbo „schnuppern“, e si tratta di verbo quanto mai appropriato almeno al cospetto di un contesto così soffocante) l’odore di qualche parola „straniera“ nell’ambiente extrascoslastico di un ospizio significa cifrare per l’ennessima volta lo stolido divieto di indicare con l’esercizio dell’umanità e dell’intelligenza una via d’uscita all’arcasimo e all’inefficacia di un modello pedagogico sconsolatamente incapace di esaudire le aspettative di una migliore educazione (non solo linguistica) delle nuove generazioni. Ma a questo punto anche la metafora dell’asilo e dell’ospizio dalla quale siamo partiti, la metafora di uno sviluppo intellettuale che si vorrebbe costringere nell’aberrante cortocircuito tra la dimensione preriflessiva della primissima infanzia e il rimbambimento dell’estrema senilità, potrebbe essere ulteriormente commentata dalla proiezione di una terza istituzione, necessaria almeno per riempire la parentesi che si apre tra le sue due estremità. All’asilo e all’ospizio accosteremo dunque l’immagine di un carcere, di una prigione edificata non dalle mura e dalle inferriate di un luogo fisico, ma da quel nefasto intreccio di abitudini, di convinzioni assunte acriticamente e di leggi preposte a loro custodia. Ogni parola pronunciata dalla signora Kasslatter Mur è in realtà la perfetta esemplificazione di un dogmatismo d’ispirazione fondamentalmente carceraria, dove alla segregazione e alla mortificazione dei corpi si sostituisce la segregazione e la mortificazione della curisosità e della voglia di crescere e imparare oltre i limiti infertici dal caso. Le sue sono parole di un guardiano che giura di far obbedire la legge affermandone la validità a rischio di sprofondare nel ridicolo. O forse sono le parole di qualcuno che ha capito come proprio l’assurdità di un determinato provvedimento e di un determinato divieto possono ottenere il massimo riconoscimento producendo consequenze ancora più assurde e infine spiritualmente letali (come si evince dal tono addirittura minaccioso con il quale si chiudeva l’intervista). „So ein Blödsinn“, pare abbia detto Durnwalder a proposito di questa penosa vicenda. Ma già Kafka, alla fine del suo Processo, affermava: „Die Logik ist zwar unerschütterlich, aber einem Menschen, der leben will, widersteht sie nicht“ e noi sappiamo la fine patita da Josef K. poche righe più avanti. C’è da augurarsi che ai bambini, ai genitori e agli insegnanti di Mölten non capiti la stessa sorte e che a sopravvivere questa volta non sia la vergogna.
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